Il Divismo fenomeno di costume portato poi ai vertici, anche del paradosso, negli Stati Uniti, nasce in Italia negli anni ’10, prima che in qualunque altro paese, ma non come conseguenza di un processo studiato, ma piuttosto come passaggio inevitabile dal teatro al cinema di attrici osannate dal pubblico, infatti il divismo nasce come prerogativa tutta al femminile.
Il termine La Divina, da cui diva, nasce per l’attrice Eleonora Duse. Coniato da Gabriele D’Annunzio, suo amante per molti anni, in breve diventa il soprannome usato sia dal pubblico che dai media.
La Duse recitò solo una volta per il cinema, nel film Cenere del 1916 diretto ed interpretato da Febo Mari e tratto dall’omonimo romanzo del 1904 della scrittrice sarda Grazia Deledda.
Il romanzo è ambientato a Fonni in Sardegna, ma la casa di produzione torinese Ambrosio, per contenere i costi di realizzazione del film, fece girare gli esterni “sardi” tra Ala di Stura e Balme, località delle Valli di Lanzo a pochi km da Torino.
Il divismo nasce in Italia sul finire del primo decennio del ‘900 e viene esportato nel resto del mondo sorprattutto a Hollywood, dove diviene parte integrante dello Star System.
Esso è un fenomeno sociale per cui l’interesse del pubblico non scatta per il film in sé, ma per la presenza di un protagonista, e l’attore cinematografico acquista un’importanza mediatica e pubblicitaria fondamentale, non soltanto perchè interprete, ma perché elemento principale attraverso al quale il film viene realizzato.
La femme fatale rappresentò la tipologia, che più di ogni altra caratterizza il cinema italiano degli albori, regalando sogni all’universo maschile, ma anche femminile, perchè se consideriamo la posizione subordinata della donna italiana in quegli anni, in una società profondamente maschilista e patriarcale, le dive rappresentavano un sogno di emancipazione, un’eccezione alle regole di sottomissione femminile e al superamente dei ruoli tradizionali imposti alla donna.
La femme fatale, supera il concetto bigotto di essere per forza una rovinatrice, che porta l’uomo alla perdizione, alla morte, ma diventa un eroina, un personaggio positivo, anche una salvatrice.
Accanto a questa tipologia di personaggio se ne affermarono però anche altre più tradizionali o counque legate ad un ideale più maschilista, come la donna madre e la donna angelica, pura e indifesa, pallide fanciulle perseguitate o sofferenti. Esse fanno rivivere sullo schermo quegli archetipi femminili dell’immaginario ereditati dalla letteratura, dal melodramma, dalle arti figurative, dal mito
Del resto le dive interpretavano per il cinema personaggi presi in prestito dalla letteratura, dal melodramma, dal teatro ed erano di volta in volta femme fatale, seduttrici, donne angelo, sconosciute misteriose dal passato segreto, giovani perseguitate, donne in preda alla follia, soprattutto d’amore, figure incomprese, che trovano nel suicidio la loro fine tragica, in un atto di orgoglio per sottrarsi a quel mondo che non le merita, secondo i canoni in voga all’epoca.
Classiche erano le scene in cui queste donne pallide vestite di abiti dalle scollature audaci, camminavano vacillando nella notte insonne, in preda alla febbre dell’amore o alla disperazione, accarezzando le pareti con le mani diafane, aggrappandosi ai tendaggi, alle piante, attraversando stanze lussuose, scalinate marmoree, giardini malinconici, in una profusione di drappi, veli e fiori.
Le principali dive del muto italiano sono Lyda Borelli, regina dei film prodotti a Torino, sofisticata e longilinea, dai movimenti sinuosi, Francesca Bertini attrice talentuosa, dalla bellezza straordinaramente fotogenica e Pina Menichelli femme fatale per eccellenza.
Sono tra le attrici cinemattografiche le più celebri di quegli anni, con una brillante carriera teatrale alle spalle, approdano al cinema ammaliando letteralmente il pubblico.
I loro film sono spesso trasposizioni cinematografiche delle opere che hanno rese celebri sui palcoscenici, ma non solo. l vantaggio dal cinema rispetto al teatro era l’accessilità offerta alle classi meno abbienti, che potevano accostarsi alle grandi opere o semplicemente godere della magia della nuova arte, pagando un biglietto irrisorio, rispetto al costo di quello teatrale, e già nel 1913 si assiste alle prime forme di idolatria collettiva, che si manifestano con l’imitazione di atteggiamenti, movenze, vezzi, modi di vestire e acconciarsi dell’oggetto della loro ammirazione.
Le dive si comportavano proprio da “prime donne“, capricciose, esigenti, pretendevano una fotografia che facesse risaltare la loro bellezza e il portamento, con luci adeguate, scene lunghe e senza tagli, per esaltare il loro genio, e inquadrature larghe, che le riprendessero a figura intera, al fine di rendere la recitazione come su un palcoscenico. Spesso si sostituiscono al regista nella scelta delle location, della posizione della macchina da ripresa, del tipo di inquadratura e fotografia e della loro durata.
Il fenomeno del divismo penalizzò la sperimentazione della regia italiana del periodo muto verso uno sviluppo creativo del linguaggio cinematografico, essa tendeva infatti a rimanere legata alle peculiarità dello spettacolo teatrale: campo largo in cui sono gli attori a muoversi sulla scena, limitato ricorso al primo piano, sviluppo narrativo lineare e, di consegueza, un montaggio minimo.
Le dive erano consapevoli del loro prestigio e potere di scelta, in quanto fortemente sostenute dai produttori. Il pubblico colto snobbava il cinema, non considerandolo una forma d’arte, un intrattenimento culturale, e continuava a preferirvi il teatro.
Le dive portavano il teatro e le sue opere al cinema, nobilitandolo.
Francesca Bertini, per esempio, smisuratamente altezzosa ed egocentrica, quando recitò il ruolo della protagonista in Assunta Spina (1915), film considerato precursore del neorealismo, tratto dall’omonimo dramma di Salvatore Di Giacomo, per la regia di Gustavo Serena, non si limitò alla recitazione, ma pretese un ruolo primario anche nella realizzazione del film. Organizzava, comandava, dava suggerimenti, spostava attori e comparse, cambiava i punti di vista e le prospettive, decideva l’angolazione della macchina da presa, faceva ripetere una scena finchè non era soddisfatta. Si prese il merito di aver fatto girare le scene del film direttamente fra le strade di Napoli.
Francesca Bertini benchè fosse la più popolana fra le dive inaugurò lo stile, che sarà peculiare al genere del divismo: pretenziosità, esigenze di lusso e confort personali, capricci, eccessiva consapevolezza di sè. Comunque, divismo a parte, la Bertini rimane figura importante nella storia del cinema italiano, perchè avviò il passaggio dalla recitazione teatrale a quella cinematografica, la sua interpretazione era moderna, meno evocativa e più intensa, la macchina da presa indugiava su di lei e sul suo bel volto così efficacemente espressivo, in primi piani ravvicinati, che incantavano il pubblico di tutto il mondo.
La sua rivalità artistica con Lyda Borelli, diva dal fascino più sofisticato anche se fisicamente meno attraente, diede vita alle primo scontro mediatico del cinema italiano, le prime forme di gossip riempivano le pagine delle riviste incuriosendo e facendo sognare i lettori.
La stella della Bertini cominciò a tramontare all’inizio degli anni ’20.
Dopo il matrimonio avvenuto nel 1921 col calciatore e banchiere svizzero Alfred Cartier, la Bertini diradò la sua presenza sullo schermo, il pubblico iniziò ad abbandonarla e lei ad abbandonare il suo pubblico.
I suoi lavori venivano accolti in modo tiepido, i critici cominciarono ad attaccare le sue performance, il consenso popolare scendeva.
I motivi di questo declino erano diversi, ma essenzialmente dovuti ai tempi che evolvevano.
La Grande Guerra aveva sconvolto il mondo, cambiando profondamente la società e creando una spaccatura tra vecchio e nuovo, anche il cinema esigeva rinnovamento, modernità, non c’era più posto per vecchi clichè.
Del resto anche le altre dive affrontarono la stessa inesorabile caduta di popolarità con l’arrivo del nuovo decennio. A partire dagli anni venti, non riuscirono a reggere il confronto coi divi di Hollywood.
Il fenomeno del divismo italiano nato in modo piuttosto spontaneo e mantenuto dalle mode del momento recedeva, perdeva il suo primato, soccombendo a quello hollywoodiano sostenuto da massicce e studiate strategie mediatiche, commerciali e industriali.
Con l’avvento del cinema sonoro comunque, come successe a tanti attori dell’era del muto, anche molte dive italiane sarebbero state tagliate fuori, perchè non possedevono una voce adatta o perchè non erano in grado di di rinnovarsi adeguandosi alle nuove tecniche di recitazione, meno enfatiche e prive dei gesti eccessivi tipici di un cinema che doveva farsi capire senza parlare.
Francesca Bertini, come Lyda Borelli, si arrese al declino e dipo essersi sposata si ritirò pian piano dal set rifiutando un contratto milionario con la Fox, che avrebbe voluto portarla ad Hollywood, nella sua pur breve carriera aveva girato un centinaio di film e guadagnato quattro milioni di lire dell’epoca.
Pina Menichelli, la femme fatale per eccellenza del cinema italiano, resistette ancora qualche anno, sfruttando il campo libero lasciato dalle rivali, ritirandosi a vita privata nel 1924 quando si unì in seconde nozze col barone Carlo Amato nel 1924. Anche Lyda Borelli sposò un nobile il ricchissimo conte e industriale Vittorio Cini, nel giugno del 1918.
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